Il calcio per le donne è anche una doppia sfida

Gli Europei di calcio, che hanno visto una splendida Svizzera arrivare ai quarti di finale, non sono solo un evento sportivo. Sono un fenomeno culturale e sociale. Gli stadi pieni, l’atmosfera contagiosa di un pubblico eterogeneo e rispettoso sono una dimostrazione che il calcio al femminile può essere un modello di convivenza pacifica e inclusiva, capace di superare stereotipi perché non si tratta solo di un pallone che rotola su un prato, due squadre che si affrontano, un pubblico che osserva: è una metafora della vita, un campo con regole, confini, compagni/e e avversari/ e. È anche uno sguardo esterno, un pubblico pronto ad applaudire o a fischiare. Già di per sé una sfida, ma per le donne lo è due volte. Perché quel campo - reale o metaforico - raramente è stato progettato per loro.

Dal lavoro alla politica, dallo sport alla vita pubblica, le donne si muovono su un terreno che per secoli è stato appannaggio maschile. Entrarci significa ancora oggi sfidare occhi che dubitano, commenti che sminuiscono, barriere invisibili. Significa, ogni volta, dimostrare di avere il diritto non solo di essere lì, ma di restarci! Ogni donna che prende la parola in una riunione, che guida un team, che si distingue per competenza e che prende decisioni, sta giocando una partita decisiva: quella per la visibilità, il riconoscimento, l’equità. E spesso l’avversario più ostinato non è una persona, ma una cultura silenziosa che giudica «determinato» un uomo e «aggressiva» una donna per lo stesso comportamento. Le differenze si vedono nei soffitti di cristallo, nei pavimenti appiccicosi, nelle carriere interrotte. Ogni ostacolo è insieme professionale, personale e culturale. È un tackle contro decenni di retaggi che sussurrano «non puoi» e una risposta che afferma con forza: «Sì, posso. E posso farlo bene!».
Perché le donne sanno cosa vuol dire correre controvento. Vuol dire dover essere perfette, lavorare il doppio per la metà del riconoscimento, adattarsi a regole scritte da altri. Vuol dire dover essere impeccabili perché ogni errore viene ingigantito e usato come prova di inadeguatezza e navigare in sistemi che spesso non sono stati pensati per includerle davvero. Eppure continuano a correre in campo. Ogni traguardo raggiunto non è solo personale: è un atto collettivo che apre la strada a chi verrà dopo.

Come nel calcio, nessuna vince da sola.

Serve gioco di squadra, coraggio, altruismo, visione. Serve anche riscrivere le regole, per renderle davvero inclusive. Pari opportunità non è «lasciare entrare», ma «lasciare spazio pieno», senza chiedere di rinunciare a sé stesse per adattarsi. La strada verso l’equità è fatta di fatica, cadute e ripartenze. Ma ogni volta che una donna entra in campo e segna un gol, il campo si allarga per tutte. La vera vittoria? Quando non ci sarà più bisogno di giustificare la presenza delle donne.

Quando scendere in campo sarà naturale, senza distinzioni.

Mari Luz Besomi-Candolfi
presidente DLRS, comitato Faftplus